Le mie scarpe sporche
Ero venuto a cercarti. Avevo visto solo
macerie, dolore e distruzione.
Ero disperato e rabbioso,
così sconfitto, tornai a casa.
Vagai per il nostro appartamento con addosso
dei vestiti polverosi.
Polvere sul viso, sulle mani, tra i capelli,
nel naso e nella bocca. Polvere nei polmoni.
Polvere sul divano, dove piansi, per non so
quanto tempo.
Quella polvere la vedo ancora oggi sulle
mie scarpe.
Non riesco più a dormire e così di notte
guardo fuori dalla finestra.
Non vedo più Brooklyn, ma riflesse nel
vetro le mie lacrime.
Allora capisco, che voglio ancora soffrire.
Prendo la bottiglia e annego i
miei pensieri.
Nel vuoto di questi giorni, mi sembra
ancora di sentirli i tuoi passi.
Un brivido,
un ticchettio arriva
dalla camera da letto. Apro la porta e non
ci sei.
L’unica cosa che riesco a fare e sbatterla
forte quella porta, chiudendola dietro di
me.
Ho bisogno di rumore.
Le tue cose sono ancora li, dove le
hai lasciate.
L’intimo e le tue camicette buffe nel comò.
I vestiti ben ordinati nell'armadio.
Le scarpe nell'angolo della stanza.
La tua giacca sulla sedia.
Annuso il tuo pigiama seduto sul letto
disfatto. Piango.
Prendo in mano dei documenti
appoggiati in ordine sparso sulla
scrivania.
I miei occhi si fermano sulla tua
data di nascita e sul nostro indirizzo di
casa.
Guardo quel crocefisso e penso,
dove sei?
Chissà se adesso sei da Dio?
Se Dio esiste, perché ha voluto tutto
questo?
Se invece esiste un paradiso, ora tu
sicuramente sei li.
Sorridevi sempre,
come in questa foto
che mi rigiro tra le mani.
Eri splendida nei tuoi vent'anni.
Eri unica, in ogni cosa che facevi, ci mettevi
passione e gioia di vivere.
Eri testarda, complicata e difficile da
capire, anche un po' stronza e permalosa
proprio come questa città.
Io ti amavo cosi, con i tuoi pregi e i tuoi
difetti.
Se non so dové è Dio e il paradiso, il
diavolo e l’inferno so dove sono.
Dentro la Tv, nella radio è nella cassetta
delle lettere.
Nella Tv cerco la verità.
Ma vedo solo frammenti d'immagini che
si sono tatuate nella mia mente, come un
incubo a occhi aperti.
Anche il numero del tuo ufficio
è stampato nella mia mente.
Vorrei ancora comporlo quel numero e
sperare che tu mi risponda.
Ma dopo la millesima chiamata a vuoto, il
telefono è volato giù dalle scale e si
è distrutto in mille pezzi, come il mio
cuore.
Bene, almeno nessuno mi chiama più,
per chiedermi come sto.
E’ passato ormai un mese e in casa non
ho spostato e toccato più niente di tuo.
In tutta questa mia tragicità, mi rendo
conto di essere ridicolo.
Mi conforta sapere che non sono il solo,
in questa città ferita.
Un collega mi ha detto che lui andrà
in terapia.
Io preferisco di no, ho bisogno di farmi
del male e di trattarmi male.
E poi ci sto lavorando sulla mia
solitudine.
Ho deciso, domani verrà tua sorella a
prendere tutte le tue cose.
Forse piangeremo.
Al lavoro, al pub, in palestra e con gli
amici invece devo mostrarmi forte,
proprio come vorresti te.
Dalle finestre entra il sole, ormai è
mattina.
Sul lavandino in cucina c’e ancora la tua
tazza macchiata di rossetto, appoggio le
mie labbra sul bordo e chiudo gli occhi.
Mi manchi.
"Fanculo", esco sbattendo la porta, con le
mie scarpe sporche di polvere.
Con questo racconto partecipo a:
theneverendingcontest n° 23 S3-P5-I1 - Contest
Il tema e l'ambientazione sono quelli proposti da @moncia90, vincitore del contest n° 22 S2-P5-I1:
Tema
Ultimo Bacio
Ambientazione
New York, 11 Settembre 2001
Saluti @kork75