HO PAURA: Il figlio di una mia amica ha preso una coltellata

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(foto dal web)

Il figlio della mia amica ha diciassette anni. Ad un concerto un ragazzo un po’ più grande di lui gli chiede una sigaretta, lui non gliela da e l’altro tira fuori un coltello e glielo infila in pancia.

Il figlio della mia amica è davvero un bravo ragazzo, sensibile e ben educato. Chi avrebbe mai potuto pensare che potesse accadere una cosa del genere? E invece è successo. Già. …non succede solo nei giornali; da qualche parte accade nella vita reale. Questa volta è capitato a lui.

Il figlio della mia amica si è salvato. Ha cominciato un percorso dallo psicologo e ce la farà.
L’attentatore tra una cosa e l’altra ha passato un mese in carcere. Ora è fuori, in attesa del processo. Viene da una brutta zona, una zona difficile che non sto neanche a dire; è poco importante quale. E’ una zona difficile nella quale molti ragazzi finiscono per fare la stessa strada. Dobbiamo sentirci impegnati a migliorare le condizioni di queste zone, altrimenti non se ne viene fuori. …ma questa è un’altra storia.

Il figlio della mia amica, assieme ai suoi amici, è stato chiamato a testimoniare e l’attentatore gliel’ha giurata.

Il figlio della mia amica è un ragazzo. Ha l’ottimismo dei ragazzi; ha poca paura. La sorella, qualche anno più grande, ne ha un po’ di più. La mia amica non dorme più la notte. Ha paura anche per lei, per la sorella. Per sua figlia. Per suo figlio e sua figlia.

Io non so come funzionino queste cose. E per questo motivo, in questi giorni, ho coinvolto nella riflessione due miei amici impegnati sul tema del mondo carcerario. Che sono competenti, democratici e misurati. E che combattono, giustamente, contro il sovraffollamento delle carceri e lo scarso impegno e successo di ogni pratica di formazione e reinserimento dei detenuti.

Gli ho domandato qual’è il senso di lasciare fuori dal carcere un ragazzo il cui sistema di riferimento, i cui modelli, il cui immaginario sono tali da rendere possibile che per tre volte fosse vicino ad uccidere un uomo. Ho chiesto loro Dove pensano che possa trovare gli spunti per una diversa visione del mondo se lo abbandoniamo ancora una volta nella sua zona, in quell’ambirntr culturale, in quel sistema di riferimento. Cosa ci fa pensare che non tornerà a delinquere?

In un caso così auto evidente, perché bisogna attendere il processo per iniziarlo ad un percorso educativo? Per prendere le giuste misure di prevenzione?
Il processo stabilirà le ragioni del suo gesto, le motiverà e saprà probabilmente individuare tutte le possibili attenuanti. Com’è giusto che sia. Ma che il ragazzo (l’attentatore) sia un pericolo e, soprattutto, abbia bisogno di aiuto è palese.

Invece l’attentatore è di nuovo in giro, solo, con gli stessi spiriti che gli aleggiano nella testa.
Nessuno lo aiuta, nessuno lo controlla. E la mia amica ha paura.
E anche io.

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