Recensione film - Io, Capitano

Un controcampo, la storia da un altro punto di vista, il loro.
Il viaggio fisico, geografico e onirico di chi non sceglie di partire ma deve.
Quello che non si vede e non si sa oltre le sponde, da qui e di là dal mare.

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Il pericolo e il rischio da pagare per darsi una possibilità. Costruirsi il coraggio strada facendo, via via che si sgretola la speranza e ad ogni difficoltà superata, allontanare la possibilità del ritorno.
Matteo Garrone racconta con autenticità e rispetto un'attualità dolorosa che dovrebbe riguardarci tutti. L'occhio della macchina da presa e del regista, filtrando attraverso la finzione le vicende vere e documetate, le rende credibili e autorevoli.
La scelta etica di Garrone di fermarsi poco prima dell'abuso delle immagini violente non lascia spazio alla spettacolarizzazione del dolore, tutelando le storie vere e private e i loro reali protagonisti: le persone.

Tutto questo fa di Garrone forse l'unico o uno dei pochi esponenti di un cinema italiano che può ritenersi e fregiarsi dell'appellativo di cinema d'autore. A conferma, anche la scelta di mantenere la lingua originale valutando a priori il corto circuito e la stonatura con le immagini che avrebbe comportato il doppiaggio.

La candidatura agli Oscar, per le ragioni di cui sopra, è meritatissima. La vittoria è una probabilità da mettere in conto se a valutare è la giuria di un Paese, gli Stati Uniti, che si è nutrito e si nutre del melting pot etnico e culturale e dei flussi migratori che lo hanno generato e che tuttora ne costituiscono un tratto distintivo e per molti versi un'annosa questione. L'Europa, oggi più che mai, segue a ruota.

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